Lettera dell'Ingegner Amidei a Segré
1958
Nel 1914 ero ispettore capo presso il Ministero delle Ferrovie. Con me lavorava l'ispettore Alberto Fermi. Dopo il lavoro tornavamo a casa insieme, abitavamo vicino. Quasi sempre ci accompagnava Enrico Fermi [...] che di solito veniva ad aspettare il padre davanti al Ministero. Saputo che io studiavo in modo approfondito matematica e fisica, Enrico cominciò a farmi delle domande. Allora lui aveva tredici anni e io trentasette.
Ricordo bene la sua prima domanda:
«É vero che esiste una branca della geometria in cui le caratteristiche geometriche importanti vengono evidenziate senza utilizzare i concetti di misura?» Risposi che era giusto e che quella branca della geometria si chiamava geometria proiettiva. «Ma in che modo queste caratteristiche vengono utilizzate nella pratica, per esempio dai topografi o dagli ingegneri?» mi chiese. La domanda mi parve totalmente ragionevole. Nel tentativo di spiegare al ragazzo le caratteristiche di questa materia che potevano essere di grande utilità, gli promisi di portargli , cosa che feci, un libro sulla geometria proiettiva [...].
Di lì a qualche giorno Enrico mi disse di aver studiato già tre capitoli del libro e che me lo avrebbe restituito appena terminato. Più o meno due mesi dopo il libro mi fu reso. Alla mia domanda, se avesse trovato nel libro delle difficoltà, il ragazzo rispose: «Nessuna» e aggiunse che aveva dimostrato tutti i teoremi e che aveva risolto tutti gli esercizi (ce n'erano più di duecento).
Ero molto stupito e in un primo tempo dubitai che Enrico fosse riuscito a risolvere quegli esercizi che, lo ricordavo bene, mi erano sembrati troppo difficili o la cui soluzione avrebbe richiesto anche a me troppo tempo. Mi convinsi poi che Enrico aveva risolto anche quelli. [...]
Mi convinsi che Enrico aveva un dono raro, almeno per quanto riguardava la geometria. Quando ne parlai con il padre, quegli mi rispose che benché Enrico andasse a scuola, nessuno degli insegnanti pensava che fosse particolarmente dotato.
In seguito venni a sapere che Enrico studiava matematica e fisica su vari libri, comprati un poco a casaccio sulle bancarelle di Campo de' Fiori. In particolare egli sperava di trovare in quei libri una teoria che spiegasse il movimento delle trottole e dei giroscopi. Non trovò le spiegazioni che cercava, ma tornando più volte sul problema il ragazzo si avvicinò da solo alla spiegazione della natura del movimento "enigmatico" della trottola. Io gli dissi che secondo me la spiegazione rigidamente scientifica poteva essere trovata solo possedendo buone conoscenze di meccanica teorica, ma che per studiarla era necessario conoscere la trigonometria, l'algebra, la geometria analitica [...]. Enrico si dichiarò d'accordo con me e cominciai da allora a procurargli libri che, a mio parere, potevano chiarirgli le idee e dargli una solida base matematica [...]
Nel luglio del 1918, portato a termine in due anni il triennio del liceo, Enrico ottenne la maturità. Si pose quindi il problema se avesse un senso iscriversi all'Università di Roma. Io ed Enrico ne parlammo a lungo. Gli chiesi a cosa volesse dedicarsi, se alla matematica o alla fisica. Riporto qui la sua risposta, parola per parola:
«Ho studiato matematica con tanta dedizione solo perché la ritenevo una preparazione necessaria allo studio della fisica alla quale voglio dedicarmi completamente». Gli chiesi allora se considerasse le sue conoscenze in fisica altrettanto profonde e vaste quanto quelle di matematica. «Conosco la fisica in modo molto più ampio e, mi pare, altrettanto a fondo, in quanto ho letto tutti i più importanti libri su questa materia» mi rispose.
Ero già convinto che a Enrico bastasse leggere un libro una volta per conoscerlo bene e ne ebbi la conferma quando me ne restituì uno di analisi matematica che aveva letto; alla mia proposta di tenerlo ancora per un anno per poterlo consultare se ne avesse avuto bisogno, mi dette una risposta che mi colpì molto:
«La ringrazio, mi disse, ma non è necessario perché sono sicuro di ricordare tutti ciò che vale la pena di tenere a mente. Del resto fra qualche anno io capirò i concetti fondamentali contenuti in quel testo in maniera ancora più precisa e se per caso avessi necessità di una formula sarei in grado di ottenerla da solo senza grandi difficoltà».
Oltre a incredibili doti scientifiche Fermi aveva anche una memoria eccezionale [...].
Arrivò il momento in cui ritenni che era ora di esporgli il mio piano [...]. Il mio progetto era il seguente: Enrico ... doveva iscriversi all'Università di Pisa; per questo avrebbe dovuto sostenere il concorso alla Scuola Normale e seguire contemporaneamente le lezioni alla Scuola e all'Università. [...] Enrico riconobbe la validità del mio progetto e decise di attuarlo anche se sapeva che i genitori sarebbero stati contrari. Andai immediatamente a Pisa per ottenere tutte le informazioni necessarie e il programma per il concorso alla Scuola Normale. Tornai a Roma per studiare quel programma con lui. Mi convinsi che egli conosceva già a fondo tutte le materie legate alla matematica e alla fisica ed espressi la convinzione che non solo avrebbe vinto il concorso, ma che sarebbe risultato il primo dei concorrenti. E così fu.
I genitori di Enrico non approvarono il mio progetto per motivi assolutamente comprensibili. «Abbiamo già perso Giulio [il fratello maggiore di Enrico, scomparso nel 1915, dopo una breve malattia], mi dissero, e adesso dovremmo per quattro anni separarci anche da Enrico nonostante che a Roma ci sia un'ottima Università. É giusto questo?». Furono necessari una pazienza da santi e molto tatto per convincerli piano piano che il loro sacrificio avrebbe aperto al figlio le porte di una brillante carriera. Alla fine diedero il consenso.